FISCO CONSULTING

Bitcoin e Criptovalute sui massimi storici quindi inevitabilmente l’appetito per il guadagno soprattutto tra i piccoli investitori

Operatori retail che, da un lato, spesso dimenticano rischio e volatilità di simili asset; e che, dall’altro, scordano come anche nella criptosfera il fisco li osservi. Cioè: che esistono degli adempimenti da compiere.

Su questo fronte, in primis, deve distinguersi tra chi sfrutta gli Etf (Etn in Europa) sui criptoasset e chi, invece, investe direttamente sugli stessi. Ebbene: nel primo caso non rileva che il sottostante appartenga alla criptosfera e, pertanto, «si ricade – spiega Francesco Avella, fiscalista esperto di criptovalute – nell’ambito delle tradizionali regole sui fondi».

Ad esempio: «sugli Etn europei è applicata l’aliquota del 26% sulla plusvalenza realizzata tramite il fondo». In tal senso, nel momento in cui c’è l’acquisto di una quota dell’Etn, al livello di 10 e successivamente la si vende a 15, la base imponibile sarà di 5 e l’aliquota per l’appunto del 26% ( tassazione separata)

Rispetto, invece, al concreto adempimento degli obblighi la discriminante è data dall’appoggiarsi, o meno, ad un istituto finanziario stabilito in Italia oppure estero. «Nel primo caso, è quest’ultimo che adempie l’obbligo, quale sostituto d’imposta, del pagamento fiscale e di monitoraggio».

Quando, al contrario, l’investitore utilizza un istituto straniero (piattaforma estera) sarà lui a doversi fare carico di entrambi gli oneri in dichiarazione dei redditi annuale.

Criptoasset e tasse

Già, gli oneri. Cosa accade, invece, nel momento in cui l’investimento è realizzato direttamente sui criptoasset?

Qui, va ricordato, manca un’apposita disciplina legislativa. Al di là di ciò, però, va detto che l’Agenzia delle entrate ha inquadrato le cryptocurrency, ai fini fiscali, nelle valute estere. «L’approccio- riprende Avella – in passato è stato oggetto di critiche. Tuttavia, da quando El Salvador ha attribuito corso legale al bitcoin, l’interpretazione in oggetto si è rafforzata».

Ciò detto l’attenzione di chi possiede criptovalute deve indirizzarsi sulla possibile imposizione fiscale. In questo caso, nell’ipotesi di una plusvalenza, è prevista l’applicazione dell’aliquota sulle rendite finanziarie del 26% (tassazione separata)

Il pagamento, che deve essere realizzato nella dichiarazione dei redditi, prevede però una franchigia per i piccoli investitori. Infatti sotto tale importo le criptovalute non producono redditi da tassare.

«Questa è costituita dall’importo delle criptocurrency complessivamente possedute». Più specificatamente «si tratta del controvalore oltre la soglia di 51.645,69 euro detenuto per almeno sette giorni lavorativi consecutivi, in base al cambio dell’euro all’inizio del periodo d’imposta». Vale a dire: all’inizio dell’anno in cui è stata realizzata la plusvalenza.

Ma se non è dovuta l’applicazione dell’imposta sulla plusvalenza, è sempre obbligatorio il monitoraggio fiscale. Vediamo.

Obblighi d’informazione / Monitoraggio Fiscale

Ma non è solo una questione di potenziali pagamenti d’imposta.

Ovviamente sussiste l’obbligo di informazione.

Qui il detentore degli asset in oggetto, nell’ambito del cosiddetto monitoraggio fiscale, deve comunicarlo tramite il quadro RW della dichiarazione dei redditi, anche se non è stata realizzata alcuna plusvalenza.

Pure in questo caso per gli esperti restano dubbi e critiche, ma bisogna considerare che «la mera compilazione del quadro RW ha finalità informativa e non comporta in sé alcuna tassazione per il contribuente».

Già, il contribuente. Qual è, allora, per quest’ultimo il valore cui le cryptocurrency devono essere indicate nella dichiarazione dei redditi? «In un interpello del 2018 la Direzione regionale della Lombardia – sottolinea Avella – ha affermato che le criptovalute dovrebbero essere iscritte a valore di mercato». L’indicazione «non è condivisibile. Le cryptocurrency, in quanto scambiate su piattaforme virtuali ad oggi non assimilabili ai mercati regolamentati, devono, a mio parere, essere valorizzate nel quadro RW al loro costo d’acquisto».

Le transazioni criptovaluta su criptovaluta

Insomma: tutto rose e fiori? Evidentemente no. Ci sono molteplici casi specifici dove la situazione, ancora, rimane molto incerta. Così è, ad esempio, per le transazioni criptovaluta su criptovaluta e la loro eventuale tassazione.

A ben vedere, attribuire rilevanza alle operazioni crypto-to-crypto richiederebbe, da un lato, un’attività di accertamento «eccessivamente e ingiustificatamente onerosa sia per i contribuenti che per l’amministrazione finanziaria»; e, dall’altro, significherebbe «tassare grandezze meramente presunte e potenzialmente destinate a divenire inesistenti, considerata la grande volatilità delle criptovalute».

«In realtà sembrerebbe più rispondente ai principi costituzionali, e alle peculiarità delle criptovalute, trattare le operazioni crypto-to-crypto alla stregua di non-operazioni ai fini fiscali. in questo modo, si assoggetterebbe ad imposizione soltanto la grandezza emergente dalla conversione di valute virtuali in valute tradizionali, che rappresenta l’effettivo arricchimento ottenuto dal contribuente. Tuttavia – conclude Avella-, la questione non è affatto pacifica e, allo stato attuale, anche le operazioni crypto-to-crypto potrebbero essere considerate tassabili da parte dell’agenzia delle Entrate».

Le difese per l’investitore e l’utility token

Fin qui alcune considerazioni sul fisco. Quali però, vista l’assenza di una norma che regola in generale i criptoasset, le tutele potenziali per l’investitore? «Il bitcoin – risponde Andrea Conso, dello studio Annunziata & Conso – è più corretto, oggi, ricondurlo ad un investimento di natura finanziaria».

Il regolamento Ue MiCa (atteso nel 2024), definendo crypto asset ciò che è assimilabile agli utility token (che danno una legittimazione a chi ne è in possesso a ricevere, a titolo gratuito od oneroso, un qualche bene o servizio) o alle stable coin, «sembra rafforzare quest’impostazione».

Con il che, riconducendo il bitcoin al prodotto finanziario, «possono, in ipotesi, attivarsi rispetto ad esso le tutele previste nella sollecitazione del pubblico risparmio». Un esempio? Chi offre la criptovaluta ad un terzo dovrebbe contestualmente supportare la proposta «soddisfacendo le condizioni minime sull’informativa e il consenso consapevole». Cosa accade, invece, riguardo ai criptoasset che si configurano come “utility” token? «In questo caso- riprende Conso-, ricordando che l’oggetto in questione può ricondursi ad un titolo di legittimazione a ricevere un bene od un servizio, non è sbagliato pensare alle tutele che sono previste dal Codice del consumatore».

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